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Il libro delle case

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Verso l’altrove

 

L’esergo cita un vecchio romanzo di Milan Kundera, la Vita è altrove[1]. Mi colpisce l’avverbio perché mi ci sono imbattuto spesso recentemente, in altri libri, in altre storie. Forse vorremmo tutti essere altrove, benché l’altrove non esista e, se esiste, non può essere che la morte. Di altrove si muore, anche giovani se è per questo, esattamente come Jaromil, il protagonista del romanzo di Kundera.

Beh, se Andrea Bajani si sente autorizzato a confonderci e disorientarci, non vedo perché noi, umili suoi lettori, dovremmo esimerci dal formulare ipotesi stravaganti; tanto più che non sappiamo nulla di lui, a parte averne letto alcuni libri. Ne vedo per la prima volta la faccia sul risvolto di copertina. La foto in bianco e nero ritrae il volto di un bell’uomo, di tre quanti più o meno. Barba incolta, basette lunghe fuori moda, capigliatura folta apparentemente negletta. Occhi chiari e luminosi, non ha rughe visibili, a parte le parentesi agli angoli della bocca che delimitano un sorriso appena accennato, a labbra serrate. Anche lo sguardo sembra sorridere, puntato su qualcuno o qualcosa fuori campo che forse gli fa simpatia. Il risolino è per me enigmatico, come quello della Gioconda: un po’ sornione, un po’ beffardo, un po’ triste. Può essere l’ammicco di un rubacuori o la mestizia di un’afflizione; o entrambe le cose.

Mi soffermo sull’autore perché penso che protagonista della sua narrativa sia egli stesso, talvolta con un’identificazione anagrafica d’invenzione (Lorenzo), talaltra esponendosi in prima persona come quando rende uno straziante omaggio al suo maestro (un padre putativo?), il compianto Antonio Tabucchi. Oppure si cela in un iperonimo (bambino) o in un pronome di prima persona oggettivato, come nel caso presente: IO è! La peculiarità di “Il libro delle case”[2] consiste nel categorizzare i personaggi, i quali non hanno altro tratto che un generico ruolo: Padre, Madre, Nonna, Sorella, Moglie, Bambina, Poeta, Prigioniero, guardati da un “IO” non meno categorico (ciascuno di noi è IO), un personaggio tra personaggi. Le case del titolo sono solo in parte luoghi fisici, spesso sono spazi della memoria, quale può essere un taccuino, un esoscheletro o l’abitacolo di un’autovettura. La memoria è selettiva, come per tutti, evoca ciò le conviene o che ne assolve il latore. È anche unica e non ha altri testimoni che noi stessi, a parte gli eventi traumatici che riguardano le collettività, ma anche in questo caso percepiti in maniera diversa a seconda del testimone.

Dunque, Bajani riproduce frammenti di una vicenda fortemente autoreferenziale e figliocentrica. Non è un puzzle in cui ogni tassello ha una sua precisa collocazione; è piuttosto una foto strappata, malamente lacerata, che mai si ricompone del tutto sotto lo sguardo paziente dell’osservatore. I nessi sono balzani, la prospettiva è unica e le grandi voragini possono solo confidare sulla cultura o l’immaginazione del lettore. È quasi un rompicapo per il continuo saltare di palo in frasca, di stagione in stagione. Per noi è legittimo ipotizzare che IO sia lo stesso Bajani, col quale abbiamo, apparentemente, poco o nulla da spartire. Perché ci scarica addosso tutto il suo malessere? Perché dovremmo specchiaci in lui?

Vi confesso che ho pensato a Pavese, non alla sua opera, ma alla sua fine. Dio, mi sono detto, questo si suicida! Lo avevo pensato anche per le opere precedenti e in questa, come nelle precedenti esperienze di lettura, ho tremato di spavento. Perché, se è vero che nessuno può privarci della sua esistenza, la scomparsa di una persona amata è per noi esiziale. Fortunatamente IO colloca la sua dipartita, presumibilmente per cause naturali, nel 2048. Mi è tornato in mente un romanzo di John Irving (Preghiera per un amico)[3] il cui coprotagonista, Owen Meany, prevede l’esatta data della sua morte. È la più bella storia sulla guerra del Vietnam che io abbia mai letto, anche se la guerra vi compare di straforo. Un trauma per i ventenni americani di allora, un’ipoteca inestinguibile sui sopravvissuti alla carneficina. C’entra col mio modesto argomentare, vedrete che c’entra.

Ma ho sorriso, finalmente ho sorriso. Immaginazione per immaginazione, mi sono detto, IO potrebbe anche concedersi qualche annetto in più. Che gli costa? Dopo tutto, quanti scrittori hanno prodotto grandi opere in età avanzata? Sono contento che IO sia tra noi e che intenda restarci ancora per un bel po’, magari anche di più, se vuole.

Veniamo al dunque. L’esperienza di IO mi rappresenta e, in qualche misura, mi esprime. Non posso dire che mi racconti per due buone ragioni: il redattore di queste note non è IO; Bajani non racconta un bel nulla, esprime uno status, una condizione, una generazione e lo fa nell’unico modo in cui è possibile estrinsecare l’universo interiore, attraverso una prosa lirica che evoca più che rappresentare. Le pene non si possono raccontare, il mio dolore, il tuo dolore posso evocarli solo attraverso i mezzi espressivi della poesia. Bajani mi esprime bene. Me! E gli altri? Dove sono gli altri? Senza una storia comune non possiamo capirci. Ecco, dunque, l’elemento che si intrufola di soppiatto nell’arbitrario solipsismo di IO. Che è in terza persona e che la comune storia apparenta ai consimili, sia pure sul mero piano della sincronia. IO nasce nel 1975 (come Bajani): con un po’ di elasticità sulla cronologia potrebbe ben essere un significativo esponente della generazione dei Millenials, cioè di coloro che sono nati nell’ultimo quarto del ventesimo secolo e che all’alba del ventunesimo si sono affacciati alla vita bugiarda degli adulti[4]. La generazione degli orfani. Gli hanno ammazzato i padri ancor prima che emettessero il primo vagito. IO Ha … quasi tutto, ha tutto per la vita, anzi è proprio pronto, è ormai attrezzato, anche se è ancora troppo presto: la vita lo ucciderebbe prima di dargli l’illusione che dà a tutti, quella di graziarlo, di concedergli l’eterno. Non sa, ancora non sa che…

Nelle ore del travaglio materno, all’idroscalo di Ostia, veniva barbaramente trucidato Pier Paolo Pasolini. Due anni e mezzo dopo in una Renault 4 di colore rosso verrà trovato il corpo esanime di Aldo Moro. Quel rosso, IO lo riconosce. La bocca luminosa del televisore glielo ha iniettato dentro il reticolo nervoso mentre corre nella Casa del sottosuolo. Per questo, anche se non lo ricorda. IO sente quel colore come una fitta dentro il fianco, come una specie di dolore nazionale. Lo riconoscerà per sempre e sarà indistinguibile dal sangue.

Per sempre! Uccidere due padri quasi in un sol colpo è un gran brutto affare per le generazioni venture. Solo gli incoscienti potranno elaborare il lutto; gli altri sapranno, sia pure in differita, che la morte di un padre è uno scacco troppo grande e scoprirsi figli, soli, sotto il peso del destino, significa farsi carico di mille improvvise responsabilità[5].

Sopprimendo la poesia e la politica, entrambe intese in senso ovviamente esteso, hai dato il via alla nuova barbarie del terzo millennio. Gli orfani non sanno che pesci pigliare, si muovono a casaccio, o tutt’al più restano muti, attoniti dinanzi a un silenzio mortifero.

Vedete, tutti noi abbiamo padri e madri biologici più o meno identificabili, ma non è detto che essi siano all’altezza del gravoso compito che li attende. A parecchi di noi è capitata solo la rappresentazione di una tradizione … inapplicabile a una famiglia messa insieme con pezzi di solitudine e di scarto. Se nasci all’interno di una famiglia raffazzonata, per trovare l’orientamento devi rivolgerti a guide più solide, più istruite, più esperte, più sagge. Ma, se anche queste ti vengono sottratte dalla furia cieca dell’insipienza ferina, la morte riguarda non esseri umani, ma il cammino della civiltà.

Il messaggio è tutto nella malcelata centralità dei due fatti di sangue che hanno tenuto a battesimo la generazione dei Millenials. Sono simboli del parricidio universale, ma anche emblemi dell’ultima e più recente cesura storica nel nostro paese. Pasolini e Moro sono patenti raffigurazioni dell’antifascismo etico, della discussa e spesso discutibile ricostruzione postbellica, ma anche del dibattito culturale e politico che tiene desta l’attenzione dei cittadini, ne provoca le reazioni e le scelte, stimola la riflessione, connette gli spiriti nella mitezza della civiltà. La morte di Edipo dovrebbe essere solo metaforica e significare superamento, avanzamento, qualche volta progresso. Edipo non può essere soppresso: è una necessità storica. Senza di lui smarrisci la strada, non sai da dove muovere né dove andare. Si edifica su solide fondamenta, non sulle macerie. Senza passato non c’è futuro. Oggi siamo tutti degli eccellenti demolitori; nessuno di noi conosce l’arte della progettazione. Disfacendoci dei padri, abbiamo negato il futuro ai figli. Gli abbiamo oscurato il sole.

Ah, dimenticavo! C’è anche Tartaruga nel libro di Bajani. Longeva e silenziosa attraversa tutta la raffazzonata storia, anzi la supera. L’alluce di IO e la testa di Tartaruga hanno la stessa forma, e per questo IO è convinto che la propria testa stia nel piede. E il piede muove verso non si sa dove, forse verso l’altrove.



[1] Milan Kundera, La vita è altrove, Adelphi 1992.

[2] Andrea Bajani, Il libro delle case, Feltrinelli 2021.

[3] John Irving, Preghiera per un amico, Biblioteca Universale Rizzoli 2000.

[4] Riecheggio il titolo di un romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, E/O edizioni 2019. Anche in questo caso il richiamo non è casuale. La protagonista del romanzo è più o meno coetanea di IO-Bajani. Si tratta di un’opera fortemente figliocentrica. Gli scenari significativi sono abitazioni. C’entrano le case.

[5] Cito da Raffaele Nigro, Dio di levante, Mondadori 1994.

 

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